3- Il Diario di Guerra

"Guerra 1915-17"

Giovanni Battista PIGHI (1970)

Comincio a metter giù qualche appunto per le memorie della mia vita. Laura [la figlia] vuole averle, per sé e specialmente per i suoi figli. Pensavo qui davanti alla mia vecchia Underwood, alla bella figura che farebbero titoli come questi "Memorie di prima, di scuola, di guerra, di poi, dei sogni" e simili. Ma io mi propongo il metodo di non aver metodo. Scriverò ciò che mi ricordo di volta in volta, via via che il ricordo affiora e m'interessa. Non garantisco date precise; non ho nessuna intenzione di fare ricerche storiche, che sarebbero fuori di posto per un personaggio cosi poco storico quale io sono. Certe memorie le ho già scritte: per esempio, il viaggio in Portogallo nel 1956, il mio dirottamento, a Vicenza, dall'Altipiano d'Asiago a S. Floriano, nel novembre del 1917. Le memorie accademiche, per quel poco che importano, si riducono al mio stato di servizio, e poco più.

Le memorie dello studioso risultano dalla bibliografia stampata in testa al mio volume "centenario" (Studi di ritmica e metrica), e dal seguito, che metterò insieme in questi anni. Le memorie del Casal sono quelle che hanno preso forma nelle poesie veronesi e nelle favole.

Casal, 15 ottobre 1970, onomastico della nonna e della mia Laura-Teresa.

Carta d' identità 1924

Ricopio ora il fascicolo scritto a Casal e a Verona tra il 15 ottobre e il 9 novembre 1970, non più sulla mia vecchia Underwood, che ho messo in pensione, ma sulla mia nuova (del 1972, salvo errore) Olivetti lettera 32. La lettera che scrissi a Laura sul "dirottamento" è arrivata regolarmente in Olanda, dove s'è persa nel disordinatissimo "archivio" di casa Schram; forse salterà fuori, un giorno o l'altro: ma intanto riassumerò qui racconto. Ho raccolto in questi giorni, e formeranno un paio di volumi, i "documenti" di scuola e casa, dal 1907 in poi. Le memorie del Casal sono ormai riunite nel "Libro segreto", al quale oggi s'aggiunge "El libro del Nano e de l'Anguana", che ne costituisce la continuazione e, forse, la fine.

Verona, 20 settembre 1974, compleanno di mio padre.

GIUGNO 1916. Il chiostro di San Bernardino, a Verona, mi vede nudo, con una fila d'altri ragazzi sui 18 anni, passar la visita medica. Abile! Per evitare storie, avevo nascosto gli occhiali (8 diottrie) nel mucchietto dei miei vestiti.

NOVEMBRE 1916. Nuova visita al Distretto Militare, in via XX settembre, per l'assegnazione all'arma. Abile per l'artiglieria da campagna; assegnato al 170 Reggimento d'Artiglieria da Campagna, Novara. Ricevo lire 2, d'argento, per la trasferta: sono dunque ormai al soldo dello Stato, ossia un soldato; col mio "cavour" in mano (perché sono ancora una volta nudo), vado a ricuperare i miei vestiti; a un gran freddo, ma i vecchi artiglieri non temono le polmoniti. Mi vesto, rimetto gli occhiali, nascosti anche questa volta, esco e trovo sull'altro marciapiede babbo e mamma, che fanno finta di non essere agitati.

Pighi in uniforme
Pighi nel 1917 in uniforme


La mia famiglia ha avuto la sua prima generazione di combattenti (il nonno materno, Diomiro Polettini, e il fratello minore della mia nonna paterna, Luigi Gatti, garibaldini nel 1866. Dopo mezzo secolo giusto, la terza generazione manda allo sbaraglio me, con un bel numero di cugini.

FEBBRAIO-APRILE 1917. "Soldato di Leva" dall' 22 febbraio, in aprile. Sono a Novara.  m'ha accompagnato mio padre, e raccomandato, per le spese eventuali e straordinarie (qualche mezzo toscano e qualche supplemento di colazione in latteria), al suo collega delle Costruzioni Telegrafiche e Telefoniche di là. Sono in grigioverde, stivalato e gambierato, con un cappottone maxi, senza spada e senza speroni: questi si davano allora dopo il primo periodo d'istruzione, ossia al momento di partire per il fronte. La solita vita (curioso che io dica "solita": e non per dire che già l'avessi conosciuta; ma era la vita che noi si trovava naturale per un soldato): sveglia presto, pulizie, esercizi in cortile (caserma Cavalli), esercizi a cavallo nel maneggio e poi fuori, brusca e striglia con certi cavallacci americani, altissimi di garrese, pagnotta, brodo, carne grassa, un'ora di libera uscita, uno scodellone di latte e pane in latteria, ritorno in camerata, sonno di piombo.

Niente "letteratura" di caserma, burle forti, pugni, prepotenze, urlacci di caporali e sergenti. Qualche parolaccia, per riscaldare l'ambiente; del resto, niente di sensazionale. Tutti d'accordo, soldati studenti, soldati operai, soldati contadini.

Niente propaganda: tutti ragazzi di 18 o 19 anni, nel terzo anno d'una guerra totale e nazionale, che non mettevano in discussione la loro sorte. Allora eravamo ancora una nazione civile; e quella era la quarta guerra del Risorgimento: e fu l'ultima. Il grande processo del Risorgimento finì con quella guerra; dopo, ebbe inizio la Decadenza, con le guerre civili e la corruzione totale dello Stato.

La caratteristica principale del nostro modo di sentire era l'accettazione senza problemi d'una vita dura, che in pochi mesi ci avrebbe portati a rischiare la vita. Perché? I più non ne avevano che una nozione vaga; gli studenti ne sapevano di più: tutta la scuola ci aveva preparati: Italia, patria, dovere, disciplina. Era toccato alle nostre classi, dall'88 al 98 (e poi toccò al 99 e a una parte del 900). A quell'età non si pensa alla morte, o almeno noi non ci pensavamo; e se qualcuno aveva paura, non lo dava a vedere, se ne vergognava. Non eravamo né spavaldi né spericolati: soldati solamente.

FEBRAIO 1917. Gli studenti universitari, d'ogni Facoltà, sono mandati Torino tare. Da allora Torino è la città che ho amato di più, dopo Verona, s' intende: e non si pensi a ricordi sentimentali, alia retorica di "Addio giovinezza": io allora ero ancora nel limbo.

L'Accademia era paralizzata dalle migliaia di nuovi studenti; si faceva l'istruzione al pezzo sui bastioni di Pietro Micca.

La confusione cessò, e penso che l'Accademia abbia ripreso a funzionare quasi normalmente, quando, tutta la studentagliache non era d'ingegneria fu caricata su lunghissime tradotte e spedita ai corsi per allievi ufficiale di fanteria. Fu un triste viaggio: le fasce (che continuavano a cadere: imparammo dopo a metterle "a spina", fuori ordinanza: allora le avevamo tutti "a spirale", miseramente caduche) invece dei gambali, i "salamini" invece delle controspalline, il cinturone invece della bandoliera (che ancora non c'era stata data), le nostre due gambe invece delle quattro del cavallo. Fanteria! che umiliazione per noi, "artiglieri" Credo che qualcuno, su quel lunghissimo, treno che ci portò per tutto un giorno da Torino a Piacenza e poi a Modena, ci abbia fatto qualche lagrimetta.

Frontespizio del corso accelerato

MAGGIO 1917. Il corso accelerato di Modena durò un mese; poi ci fu un mese di "campo" alla Porretta; vivere sotto la tenda era, allora, una novità. Alla fine, esami per modo di dire; e una gran marcia con zaino affardellato per quelli che desideravano andare negli Alpini. Io non ero un atleta, ma sano come un pesce, con gambe instancabili e un cuore da marciatore. Riuscii tra i primi, e scrissi a casa esultante, perché a Verona essere Alpino era un onore.

LUGLIO 1917. Mi mandano a casa, col grado di Aspirante ufficiale di complemento, ossia con la mia brava "stringa da scarpe" sul berretto e una Beretta calibro 9 nel cinturone. Sono assegnato alla Brigata Roma, 79° Reggimento di Fanteria, deposito di Verona. Ahimé! gli Alpini avevano bisogno d'ufficiali, ma la Fanteria se li divorava a corsi interi! Il 79° era sull'Isonzo.

Lista di studenti del corso accelerato

AGOSTO 1917. Mi godo, a Verona, a casa, un paio di mesi di licenza, dalla fine di giugno ai primi d'agosto; e preparo qualche esame: quelle sarebbero state le vacanze tra il II e il III anno ai Lettere (Padova).

Licenza, o vacanza, serena, come al solito. Nessuna agitazione in famiglia. Mia madre era sicurissima che me la sarei cavata senza una scalfittura; e poi la figlia d'un garibaldino di Bezzecca non poteva mostrar segno di timore. Mio padre non era cosi spartano: ma nascondeva i suoi sentimenti sotto la consueta maschera allegra. Io ero tranquillo: avrei fatto la mia guerra, sarei tornato, avrei ripreso il mio sanscrito, il mio latino, mi sarei laureato, e avrei fatto il professore: universitario, naturalmente. Non ne avevo il minimo dubbio.

In Google Maps: posti menzionati nel Diario

AGOSTO 1917. Con questo animo, la partenza per il fronte fu semplice: era qualcosa come la partenza per Padova, per andare a far un esame. Il 79° aveva un suo campo di riserve dalle parti di Santa Maria la Longa; il reggimento era impegnato col resto della II Armata in quella che diventò la battaglia della Bainsizza; e si riforniva di soldati e ufficiali in quel campo. Noi aspiranti eravamo trattati come soldati semplici, sotto la tenda e senza comando. Poi la II Armata passò il fiume, l'Isonzo, e cominciò a logorarsi sulla Bainsizza; ogni altro giorno pompava un pò di gente dalla sua riserva. Venne l'ordine anche al campo di Santa Maria, e un grosso reparto s'avviò, a piedi (la guerra allora si faceva ancora cosi) verso la vallata selvaggia del Judrio. Sopra Codromàz, su una scarpata fangosa, trovammo un villaggio di frasche.

Nuova attesa: ogni giorno partiva qualcuno; il 79° tre aspiranti ufficiali, per era già in trincea davanti al Vallone di Chiapovano.

Finalmente si parti, tre aspiranti ufficiali raggiungere i nostri reparti. Si parti di notte. La mattina s'era sulla cresta del monte che divide la valle del Judrio dalla valle dell' Isonzo. Il terreno era tutto crateri; l'Isonzo correva laggiù in fondo; la battaglia, ormai lontana, faceva sentire a tratti il suo rombo. Si passò il ponte a Auzza, e sù per quei greppi. Veniamo presi in forza da un battaglione del 79° accampato in un bosco, ossia in quello che restava d'un bosco. Riceviamo il comando d'un plotone: per fortuna c' erano dei buoni sottufficiali e ufficiali più anziani, vecchioni di 24 o 25 anni. A metà agosto ci spostiamo in prima linea: la trincea, un solco irregolare, dove più e dove meno profondo, in mezzo ai sassi; di là la terra di nessuno; di là ancora quei disgraziati che ufficialmente erano chiamati "il nemico". La terra di nessuno era di notte il terreno riservato alle pattuglie esplorative e ai colpi di mano. Di giorno ci si trascinava sulla pancia, in tre o quattro (un aspirante, un caporale, un paio di soldati), tenendoci al coperto dai cecchini, a far camminamenti nella roccia, a zig zág normalmente alla trincea, che dovevano servire per un'altra eventuale avanzata.

S'intende che le giornate erano variate da tiri d'artiglieria pesante, allarmi senza conseguenze (quelli di là erano più stanchi di noi, l'arrivo del rancio scarso; per gli ufficiali non c'era molta differenza) e la caccia ai pidocchi.

AGOSTO-SETTEMBRE 1917. Diventai uno specialista minatore. Un soldato col paletto di ferro, un altro con la mazza, io coi candelotti di dinamite e il cartoccio dei fulminanti in tasca, e il rotolo della miccia in mano. Sole splendido, silenzio e deserto assoluto; mi pareva d'essere sul vegro di Casal. Raggiunto il posto, qualche metro più in là dell’ esplosione del giorno prima, si scava pian piano il foro, vi s 'infila il candelotto con la sua miccia, e si dà fuoco. Un breve scoppio, una nuvoletta di sassi, un minuto dopo, l'arrivo d'un paio di granate. Ma noi eravamo già in un altro posto, se restava tempo, a fare i nostri buchi, oppure si rientrava in trincea.

OTTOBRE 1917. Ai primi d'ottobre il reggimento ebbe il cambio. La discesa verso l'Isonzo fu, nelle prime ore, piuttosto confusa. Penso, ma non so di sicuro, che qualche pattuglione austriaco abbia approfittato della buona occasione per passare la linea e spararci addosso. Io mi guadagnai un bel buco nell'elmetto, una proposta di medaglia al valore (semplicemente perché non avevo perso la testa) e la stima del colonnello comandante (#). Cambiai l'elmetto, la proposta andò a perdersi non so dove, il colonnello accettò la mia domanda di licenza per esami. Mio padre venne a trovarmi a Auzza. M'ero liberato dai pidocchi.

21 OTTOBRE 1917. Il colonnello mi faceva scrivere le lettere che richiedevano una certa forma. Il 21 ottobre mi consegnò il foglio di licenza e mi fece gli auguri, per il viaggio e per gli esami. Portai al carreggio la mia cassetta d'ordinanza, in cui l'unica cosa preziosa era il Dantino del De Gubernatis (due volumetti, Purgatorio e Paradiso; l'Inferno s'era perso non so quando), che m'aveva dato mia madre. C'era una gran pace sul fiume, sulle poche montagne a nord, sulla riva della Bainsizza, sulla valle che s'apre a sud, verso Canale. Un ottobre splendido: sotto la tenda (una tutta per me) si stava caldi.

LUN 22 OTTOBRE 1917. Partii presto, senza bagagli, ossia, come dicono i Veneziani, "a man scorlando"; passai il ponte d'Auzza e trovai un autocarro, uno di quegli ancora rari cassoni, diretto a Cividale, per Idria e Castelmonte. A Cividale restai un pezzo, sul ponte del Natisone, ad aspettare un altro autocarro.

Arrivai a Udine la sera. Un treno sgangherato mi portò a Mestre, di là un altro a Verona.

MARTEDÌ 23 OTTOBRE 1917. Mi svegliai in tempo per scendere alla stazione di Porta Vescovo; era ancora notte (tra il 22 e il 23). Arrivai a casa, in Borgo Venezia, via Betteloni 34 (la prima casa di proprietà di mio padre) sulle 5 del mattino. Mia madre mise sul fuoco un gran calderone; cacciò in un sacco tutte le onorate spoglie, dove poteva passeggiare ancora qualche "pellegrino"; mi preparò il bagno. Dopo una mezz'ora, pulito e profumato, e in borghese, consumavo una formidabile colazione, che comprendeva anche la cena e il desinare del giorno prima. Poi, davanti a padre e madre e sorella, comincia a raccontare. Era la mattina del 23 ottobre 1917.

Scritto fin qui, a Verona, mercoledì 21 ottobre 1970.

OTTOBRE-NOVEMBRE 1917. Caporetto, la ritirata di tutto il fronte, la resistenza tutto il fronte, la resistenza (parola non ancora lordata dalla politica, allora) sulla Piave e sul Grappa. Al deposito del 79° mi dicono che il reggimento non esiste più. Si costituiscono centri di raccolta dell'enorme massa di sbandati. Sbandato anch'io (al deposito non hanno ordini), mi presento a S. Floriano di Valpolicella. Il comando era nella grande villa dietro la stazioncina della scomparsa tranvia Verona-Caprino. Al barbuto capitano alpino che là spadroneggia dico tutto (avevo il foglio di licenza e il libretto universitario), con una piccola correzione della verità: al 79°, dico, ero mitragliere. La cosa era possibile: s'era cominciato, timidamente, nei mesi precedenti a fornire la fanteria di sputafuoco (pistolotti a due canne) e di mitragliatrici Fiat, che cominciavano a costituirsi in Compagnie autonome. E si parlava con ammirazione delle mitragliatrici pesanti, le Saint-Etienne (ufficialmente mod. 1907F), dateci dalla Francia: centro d'addestramento Torino. Metto le mostrine bianche e blu e divento mitragliere, a San Floriano, in attesa di ordini. Vado una prima volta a Torino, a capo d'una tradotta; parto con un centinaio d'uomini; arrivo Con 700, li consegno in caserma, ritorno. Da San Floriano a Barbarano vicentino, centro di raccolta de mitraglieri (Fiat e Saint-Etienne) e di costituzione di Compagnie mitragliatrici. Da Barbarano a Torino, per un corso d'addestramento alla Scuola di Guerra; ritorno a Barbarano.

NOVEMBRE 1917. L'Altipiano d'Asiago era in quei giorni una fornace in cui si gettavano tutte le riserve, d'uomini e d'ufficiali. Noi a Barbarano eravamo in attesa d'essere assegnati a nuove o vecchie compagnie di mitraglieri; ma queste potevano aspettare, Asiago no. Una trentina dei più giovani, me compreso, viene avviata, a piedi (solo una trentina di chilometri), verso Vicenza; chi doveva presentarsi in un luogo, chi in un altro. Io avevo l'indirizzo d'un certo comando, che riforniva di "carne" un gruppo di brigate, tra le quali la Regina, che ne consumava più d'ogni altra. Salgo le scale d'un vecchio palazzo monumentale; entro in una grande sala col soffitto altissimo, decorato o dipinto: quasi buia. Nessun mobile, eccetto una tavola a L, con molte carte sopra, e qualche scansia alle pareti. Dietro, è seduto un tenente, che a me sembra vecchio: io ne avevo diciannove e mezzo, lui oltre i trenta.

Prende il mio foglio di via. Mi guarda: "Studente?" "Signorsi". "Facoltà?" e cosi via. Gli dico: Padova, Lettere, iscritto al III anno, i nomi d'alcuni professori. Mi dice ch'è professore nell'Accademia scientifico-letteraria di Milano; mi vedo davanti le grandi barbe di Ascoli Giussani De Marchi, e resto con le ginocchia della mente inchino davanti a quell'ignoto semidio collega di quei nobili semi dèi.

Si torna a parlare di servizio: gli racconto: San Floriano, Barbarano, Torino, e ora Asiago. Mi scrive il foglio di via, lo piega, me lo consegna. "Aspirante" mi dice, "la rimando a San Floriano; non c'è fretta; si fermi un paio di giorni a casa; e mi saluti Verona". Ringrazio, saluto di stretta ordinanza, dietro-front, scendo lo scalone. Sono un po' sbalordito. Riesco a capire che quell'angelo-protettore-ufficiale, invece di mandarmi a Asiago m'ha mandato a Verona; praticamente m'aveva salvato la vita, almeno per allora. La brigata Regina era peggio di Moloch (#). Quando nel 1925 andai a Milano, cercai di trovare e conoscere quel mio salvatore; interrogai alla Cattolica il prof. Calderini, ch'era stato allievo del De Marchi all'Accademia; non trovai traccia di quel professore, ufficiale a un comando di Vicenza nel novembre 17. Penso, pur conscio della mia indegnità, all'Angelo che da settantasette anni adempie, con ogni cura e in mezzo a non poche difficoltà, all'incarico di custodirmi. (Questo paragrafo sul novembre 17, che sostituisce la lettera mandata a Laura sull'argomento, è stato scritto oggi 20 settembre 1974, venerdì, durante la battitura di queste mie memorie) (#).

NOVEMBRE 1917 (cont.). A San Floriano restai in attesa di destinazione. Si venivano costituendo sul nuovo fronte, le Compagnie di mitragliatrici pesanti, che venivano assegnate quattro per ciascuna Divisione di Corpo d'Armata. Naturalmente in quei giorni scappavo spesso a casa, in bicicletta. Ebbi finalmente, con una breve licenza, la destinazione: 81 Compagnia Mitragliatrici 907 F, XV Divisione del VI Corpo d'Armata (IV Armata), fronte del Grappa, dalla Cima Grappa al Ponte San Lorenzo, sotto l'Asolone.

DICEMBRE 1917. La Compagnia era a riposo a Mussolente, a nord del paese, sulla strada che va a Borso. Era stata sorpresa dalla ritirata sui monti di Strigno, in Valsugana; aveva salvato, scendendo per la Valsugana, i muli e il carreggio e le armi; aveva perso, tra Valstagna e Col Moschin, gli ufficiali e buona parte dei soldati. A Mussolente aveva ricevuto un tenente, un aspirante e nuovi effettivi: i "piccoli di statura", ragazzi che fino al sei mesi prima erano rimasti a casa perché non avevano la statura prescritta (un metro e sessanta mi pare). Imparai tutte queste cose, quando, alla metà di dicembre, ebbi trovato Mussolente e. in una cascina, la mia Compagnia, sotto una tempesta di neve. Con quella bravissima e carissima gente rimasi fino alla fine della guerra e al mio ritorno a Verona. Imparai, vecchio artigliere, il duro trotto del mulo; e per poco i un giorno non mi tagliai la testa contro un filo di ferro teso alla giusta altezza.

Lunedì 24 e martedì 25 dicembre 1917. Nella notte tra i 24 e il 25 ci mettemmo in marcia: nevicava. Borso, mulattiera del Monte Palla, trincea tra il Rivon il Coston, con sufficienti grotte e baracchini, sotto due metri di neve. La sera di Natale eravamo a posto, in quella che sarebbe stata la nostra casa per dieci mesi, fino all'ultima offensiva. Avevamo sulla sinistra, verso l'Asolone, un'altra delle quattro Compagnie divisionali sulla destra i fanti di non so quale Brigata, che noi, dico noi tutti, compresi i piccoli di statura, guardavamo con qualche degnazione. In teoria, due Compagnie divisionali di mitragliatrici pesanti dovevano presidiare la linea che ho detto, Rivon-Coston-Asolone, al posto della fanteria; e due starsene giù a riposo tra Borso e Crespano. In pratica i nostri turni di riposo, per una ragione o per l'al tra, erano sempre abbreviati, e i turni di trincea allungati. Dietro la trincea, appena defilate, c'erano le Batterie dell' Artiglieria da Campagna e delle Bombarde, in lunga fila, parallela alle nostre sei e sei dodici mitragliatrici. I calibri più grossi erano indietro.

Scritto fin qui, dall'ottobre-novembre al Natale. del 1917, a Verona, giovedì 22 ottobre 1970.

GENNAIO-MARZO 1918. A parte i cecchini (ossia i tiratori scelti austriaci, che avevo conosciuto sulla Bainsizza), i passaggi obbligati dove si poteva beccare qualche granata, qualche piccolo bombardamento, e sorprese notturne, che furono del resto e senza conseguenze importanti, nella nostra trincea si stava bene. I sacchi a pelo e assai rare certe ingegnosissime stufe ci tenevano caldo. Il vitto era buono e abbondante, mentre nel 17 era una schifezza. Si ricevevano notizie, posta, qualche giornale, la Tradotta di Renato Simoni. Io avevo la Lyra e l'Epos del Pascoli. Raccontavo ai miei piccoli le storie dell'Eneide, quel poco che sapevo sulle stelle, quel poco di più che credevo di sapere sul perché della guerra, sull'Italia, sul resto del mondo. Ignoravamo completamente la politica, tutti: contadini e operai lombardi, veneti, abruzzesi, siciliani e, i più, emiliani, eravamo là per fare ciò che ci veniva ordinato; non ci sentivamo eroi, ma solo soldati, ciascuno al suo posto. Ignoravamo l'orrendo marciume della politica che infettava, e continuò a infettare, il paese alle nostre spalle. Si, si sapeva degl'imboscamenti, della propaganda pacifista e simili lordure. Ma non era affar nostro. Noi eravamo là, semplicemente. Non avevamo grido di guerra; non ho mai sentito urlare, nell'assalto, né Savoia né Italia. E quei disgraziati di là, il "nemico" erano come noi, m’ accorgo rileggendo erano come noi.

Che sono tornato più volte sullo stato d'animo mio e dei combattenti ch'erano insieme con me: uno stato d'animo che ci staccava dal resto del paese. Ho detto (gennaio 1917) che noi eravamo ancora una nazione civile. Mi correggo: cominciavamo a esserlo, e lo eravamo, fuori d'ogni retorica, noi in trincea.

Ho detto che quella era per noi la quarta guerra del Risorgimento nazionale; noi combattevamo per completare l'unità d'Italia. La formula usuale era "per Trento e Trieste", ossia per il Trentino e l'Alto Adige fino al Brennero e al Resia, per la Venezia Giulia e l'Istria e la Dalmazia; in altre parole per un confine semi-cancellato da immigrazioni e infiltrazioni, alcune assai antiche, tedesche e slave; per un confine geograficamente e militarmente netto e sicuro al nord, incerto e spesso discutibile all'est. La nostra idea era che, dentro i confini segnati dalla vittoria militare, l'italianità avrebbe pacificamente assorbito la Germanicità e la Slavicità, o ne avrebbe cercato la fraterna convivenza secondo i sogni del Tommasèo e dell'Aleardi. Quanti e quali fossero i nostri errori, il senno di poi ha visto e provato; ed è certo che gli errori degli altri non erano meno gravi. Il nostro più grave errore, o abbaglio, era di credere che dalla vittoria del popolo della trincea sarebbe nato il popolo italiano, la nazione unita.

APRILE 1918. Ritorno nella mia vecchia trincea del Grappa. Trovo qualche libretto d'istruzione per i tiri indiretti delle mitragliatrici pesanti; faccio costruire un affusto, o porta-arma, che permette il giro completo, 360° gradi: buono sia per tiro indiretto, sia per l'antiaereo. Quei buffi scatoloni di stecche e tela non amavano le alte quote (il Grappa è a 1.700 metri circa), ma qualche volta s'arrischiavano fin sù: in otto mesi, nella mia zona, ho visto solo un paio d'aerei austriaci (e uno ci mitragliò), nessun italiano. Mi mandano da casa il mio vecchio manuale di trigonometria e logaritmi della III liceo, e, tra questi c’è il manualetto d'istruzioni, la mia anima di vecchio artigliere rifiorisce. Alcune prove mi persuadono che la cosa può andare; parlo di me, perché i miei colleghi, due futuri ingegneri, non ci capivano niente. Dopo un subisso di calcoli, settore di tiro, bersaglio, alzo (sulle tavolette al 25.000), pianto le mie armi in un valloncello di contro all'Asolone; sapevamo che dietro la trincea austriaca, che seguiva pressa poco la cima del monte, c’erano dei pezzi d'artiglieria. Tutto a posto: le sei armi puntavano al cielo le canne d'acciaio rivestite dei lucidi manicotti di bronzo; i lunghi nastri delle cartucce con le loro aguzze pallottole di rame sono infilati nei caricatori, pronti a scorrere alla velocità di 700 colpi al minuto. Tre uomini per arma, seri e compresi della loro importanza. Il pendio ripido del monte era davanti a noi, il bersaglio era di là, matematicamente calcolato. Do l'ordine, a gran voce "Batteria, fuoco!" Me l'ero sognato quel momento, da quando avevo lasciato il mio reggimento di Novara. Il fragore delle sei armi in azione mi pare un applauso. Quando poi raccontai agli amici artiglieri quel mio "Batteria, fuoco!" mi fecero pagare da bere, com' era più che giusto; ma non era lontano il giorno che l'avrebbero. Fu udito con le loro orecchie e applaudito con le loro mani.

Un minuto di fuoco, 4.200 calabroni di rame che sorvolano la cresta del monte e piovono di là, in quel minuscolo quadratino, segnato in blu, della tavoletta al 25.000. Smontiamo le armi, e in lunga fila scendiamo per il vallone (la Val Damoro): si doveva raggiungere la strada, di qua dal Ponte San Torenzo, evitare la "curva della morte", esposta al tiro dell'artiglieria pesante, e risalire alle nostre solite postazioni, in linea, per il tiro diretto. In silenzio, ma allegri e contenti. L'aria a’ aprile è tiepida e calma: quando (s'era circa a metà strada dalla famo sa "curva") l'aria si riempie di ronzii, rametti cadono falciati, sassi schizzano scintille; pareva uno di quegl'improvvisi acquazzoni primaverili, con la differenza che il cielo era perfettamente sereno e piovevano pallottole di Schwarzlose. I miei colleghi dell'altra parte avevano avuto la stessa idea, avevano individuato all'ingrosso la provenienza del nostro tiro, e ci ricambiavano la cortesia. Non era piacevole) star sotto quella pioggia; non ebbi però nessun ferito. La risposta era segno evidente che la nostra missiva era stata ricevuta e gustata come meritava.

MARZO 1918. Questo dovevo scriverlo prima della storia precedente, ma non sono sicuro della data. So ch'era passato il crudo inverno, sciolta quasi dappertutto la neve, azioni di pattuglia, i colpi di mano diurni e notturni. Penso al marzo, ma anche l'aprile è possibile.

Tra noi, sul monte Rivon, e il Pertica si sprofondava la Val Cesilla, che degrada dal Grappa, passa tra Asolone e Pertica, scende, verso nord, fino a Cismon sulla Brenta. Noi di lassù vedevamo, nel versante dell 'Altipiano d'Asiago, le case di Enego. Il Pertica era un avamposto del Grappa. Noi lo tenevamo, in quei mesi, con la punta delle unghie; l'Asolone era a mezzadria. Il fondo della valle, nudo fino alla curva della vecchia mulattiera che girava intorno al Col della Berretta, e boscoso più in giù, era terreno d'avventura.

Un giorno ci arriva sù, dalle cucine, ch'erano sotto l'attuale strada del Grappa, un doppio numero di muli con un numero doppio di "cassette di cottura (il rancio vi si cuoceva, ossia finiva di cuocere, in quel paio d'ore che correvano tra le cucine e la linea). E dietro alla fila dei muli una cinquantina d'uomini, d'aspetto straniero, vestiti come noi, con una tascapane da bombe a mano, gonfio, e un pugnale in cintura. Qualcuno aveva la pistola: ufficiali, forse, senza gradi visibili. Parlavano italiano, ma parlavano poco. Ci avevano avvertito, dal Comando di Divisione: erano volontari "boemi", come si diceva allora, Cèchi o Cecoslovacchi, come si disse poi; c'erano tra loro degli anziani. Mangiarono in silenzio, accettarono qualche grappino in soprannumero, poi si riunirono in un anfratto, sotto la nostra trincea. Fecero circolo, con le braccia l'uno sulle spalle & dell'altro, e cantarono: un coro di bassi e baritoni, lento, tristissimo. Poi s'inginocchiarono, e qualcuno (ormai era buio, e non vedevo bene) li benedisse. La loro fila si mosse e confuse nella notte. Dovevano scendere in Val Cesilla e arrivare alle radici del Pertica. Quella notte non si senti più chiasso del solito; i soliti “ta-pum”, i soliti “puf” delle sipe e delle ballerine. Ma i nostri amici preferivano il pugnale, silenzioso e sicuro. Quanti ne siano tornati, raggiungendo, dopo il colpo, le gallerie del Grappa, non so. Si diceva che nessuno di quei "disertori austriaci" si lasciasse catturare, per via della forca. Si diceva anche che al Pertica c'erano reparti bo emi: in ottobre certamente ce n' era. Allora l'idea d'un possibile fratricidio mi sconvolse; le lotte civili che insanguinarono in particolare l'Italia, nel mezzo secolo seguente e ancora durano, mi persuasero di ciò che avrei dovuto imparare dalla Bibbia: che il fratricidio è connaturato col genere umano: la guerra vien dopo.

GIUGNO 1918. In uno dei primi giorni di giugno un'azione dei nostri Arditi tentò di conquistare tutto il Pertica. Riuscì a mezzo, e i nostri avamposti poterono consolidarsi quasi sulla cima di quel monte, ch'è riunita alla cima del Grappa da un largo e alto dosso, una specie di ponte tra la testata della Val Cesilla e, di là, la valle dello Stizzon. Noi ci godemmo dall nostra trincea sul Coston, tutto lo spettacolo. Non dovevamo far tiri; solo l'artiglieria, dietro la nostra linea, si diede da fare: i tiri di batteria arrivavano sulla parte austriaca del Pertica precisi e scanditi: sentivamo lo sparo, alle nostre spalle, il fischio, sulle nostre teste, vedevamo le nuvolette grigie e azzurre alzarsi sul dorso del monte; dopo un istante, se non interveniva qualche  altro scoppio, ci giungerà il fragore lontano. I tiri austriaci d'interdizione non potevano fare gran danno: se corti, colpivano gli assaliti, se lunghi, andavano a perdersi sulla faccia di granito del Grappa; e lo spazio in mezzo non era grande. Gli assalitori non dovevano temere l'artiglieria, ma piuttosto quelle maledette Schwarzlose, che non s'inceppavano mai; noi, avvezzi ai capricci delle nostre eleganti e delicate 907 F, eravamo pieni d'invidiosa ammirazione per le brutte e instancabili mitragliatrici austriache. A poco a poco il lugubre canto del cannone e delle mitraglie, punteggiato dal ritmo precipitoso o lento delle bombe a mano, cesso. A mezzogiorno tutto era finito: nelle loro buche i nostri, nelle loro buche gli altri; lassù non c'era trincea. Ai morti, di qua e di là, non si pensava.

Scritto fin qui, dal gennaio al giugno 1918, a Verona, venerdì 23 ottobre 1970.

15 GIUGNO 1918 GIOVEDI. Il 15 giugno gli Austriaci attaccarono su tutto il fronte: tra Brenta e Piave, sui monti, per tenerci impegnati, sulla Piave, da Valdobbiadene alla foce, per rompere e sfondare. La zona più adatta alla rottura era il Montello: se quelli passavano, tutto lo schieramento alpino (monti Tomba, Grappa, Moschin, e l'Alti piano d'Asiago), preso alle spalle, sarebbe crollato, e il Veneto era perduto. Ma potevano anche rompere tra Grappa e Col Moschin, prendendo alle spalle la linea della Piave, con analoghe conseguenze. La linea alpina (Tomba Grappa Moschin) tenne duro; qualche falla, specie tra l'Asolone e il Ponte S.Lorenzo, fu subito otturata. La linea fluviale si ruppe al Montello; ma avevamo sufficienti riserve, la sacca fu chiusa, il fronte ristabilito. In pochi giorni l'ultima offensiva austriaca era contenuta. Di lì a quattro mesi sarebbe toccato a noi.

La mia Compagnia difendeva, tra Rivon e Coston, un chilometro di trincea: una sezione (due armi) in caverna, all'estremità orientale, una in linea, una (la mia, di riserva, dietro la cresta del monte, all'estrema sinistra dello schieramento d'artiglieria di bombarde. La posizione era forte; per attaccarci di fronte quei disgraziati dovevano salire dal fondo della Val Cesilla, una salita erta e tutta scoperta d'un migliaio di metri. Si potevano prender di fianco, dalla Cima del Grappa all' Asolone; dal Rivon al Grappa c'era Fanteria e una forte concentrazione di Artiglieria, dal Coston all'Asolone altra Fanteria e due Compagnie Saint-Étienne (tre dunque con l'81, più la quarta divisionale di riserva). Non potendo attaccarci di fronte, dovevano annientarci sotto un bombardamento massiccio.

Il bombardamento cominciò, tutto d'un colpo, improvviso, alle 3 di notte (mattina del 15 giugno). Un attimo prima, silenzio; un attimo dopo, il finimondo. La terra tremava. A urlare, non ci si sentiva. Io e i miei eravamo nelle nostre buche, scavate nel sasso, coperte da cartone catramato. Non c'era da far niente; se capitava, capitava. Dicevo "Passerà"; i piccoli guardavano con fiducia il veterano della Bainsizza. Dicevo "Ora allungano il tiro": vecchio artigliere, inventore del tiro indiretto al fatidico grido di "Batteria, fuoco!", non era vero. Nel mio buco c'era posto solo per il mio attendente e per me; ma altri quattro s’ erano accucciati con noi. Dicevo "Fin che ci tirano addosso, non vengono": ed era vero: ma un colpo solo avrebbe sparpagliato per aria tutti i nostri buchi, col loro contenuto. Sentii dei tonfi vicini, soffici; e un odore di cipolla. Urlai "Maschere ! gas lagrimogeni!" Le mani di qualcuno tremavano; li aiutai, e ci guardammo l'un l'altro, i nostri nuovi musi. Degli altri, negli altri buchi, non mi davo pensiero; avevano un caporale, Nanni bolognese, e un sergente, Lovato vicentino, veterani della Valsugana, superstiti della vecchia Compagnia: due ragazzi che non perdevano mai la testa.

I primi barlumi dell'alba si mostrarono nello stretto riquadro dell'ingresso; spensi il lanternino del mio buco; uscii carponi in quell' inferno di sassi e schegge e scoppi e fumo. Pareva proprio che avessero allungato il tiro dei medi calibri: volevano sbarrare la via ai rinforzi e far tacere le nostre artiglierie; ma i grossi calabri ci tenevano ancora compagnia. Provai a togliermi la maschera, per annusare l'aria: niente gas; avvertii tutti (parlo sempre degli uomini della mia sezione). Intanto il terremoto continuava, e io pensai al da farsi. Non avevo ordini. Sentivo abbaiare i nostri Settantacinque, ma non sapevo che danni avesse subito la nostra linea in quel settore, o a destra (seppi poi: tutto bene) o a sinistra (seppi poi: sfondata la linea sull'Asolone; uccisi gli ufficiali e perdute le due Compagnie 907 F, respinti i reparti d'assalto austriaci solo a metà giornata, e chiusa la pericolosissima sacca). A restar là, sul rovescio della linea, a far niente, sotto la minaccia continua d en 360 o 420 che ci spazzasse via tutti, non c'era né sugo né senso. Decisi di portarmi in linea. Chiamai il sergente e il caporale; c'era un camminamento a zig-zag che attraversava la cresta del monte: ci si poteva arrivare con una breve corsa, e quello ci avrebbe condotti, salvo incidenti, nella nostra trincea. Il trasferimento avvenne senza guai. Io trovai la trincea completamente deserta. Anzitutto postai le mie due armi nelle vecchie piazzole, che conoscevo bene, e dominavano tutta la Val Cesilla, dal bosco fin sotto il massiccio del Grappa. Poi andai a cercare le altre armi: s'erano spostate verso la caverna, a destra; tutti bene, salvo un paio di feriti.

Ritorno alla mia sezione; armi, munizioni, tutto pronto; anche un ospite. 'E un ufficiale bombardiere, che ha raggiunto coi suoi bestioni la linea, un po' sotto (mi spiega) ai buchi dove eravamo prima, ed è venuto a vedere che cosa c'è di là. Ormai è mattino chiaro. Gli spiego il panorama, che so a memoria (l'ho sotto gli occhi da sei mesi), e le possibili vie d'attacco. Ci mettiamo d'accordo: lui, al bisogno, avrebbe battuto l'orlo del bosco, là in fondo alla Val Cesilla; io avrei tenuto sotto il fuoco il versante sotto il Pertica; sapevo che le altre quattro armi non potevano far molto su quel versante, ma erano in grado di concentrare un bel fuoco nel bosco. L'amico bombardiere manda a regolare il puntamento, e resta con noi. La mia trincea è una felice combinazione d'un palco di prima fila e d'un loggione. Il tiro dei piccoli calibri su noi è rabbioso, ma non ci facciamo caso.

Pare, a guardare laggiù, che il bosco si sia messo in movimento, e risalga la valle: sono "loro"! La macchia verde copre ormai buona parte del fondo e del versante brullo; s'espande rapidamente. Avanzano in masse compatte. La reazione delle nostre artiglierie, dal Rivon al Grappa, non riesce a inquadrare tutta la macchia; larghe zone restano praticamente defilate. Il nostro momento. Nello stesso tempo i pignattoni delle bombarde descrivono, visibili, un bell' arco sopra le nostre teste, e ricadono sull'orlo del bosco, brulicante di gente; noi spariamo nel folto. La massa vivente ondeggia, si dilata e si restringe, qua e là si dirada, si rompe in gruppi, distaccata ormai dalla sua radice del bosco, volta le spalle, si disperde, braccata da bombarde e mitraglia scompare nel folto del bosco, nelle caverne del Pertica. L'amico bombardi ere e io, in piedi sul parapetto della trincea, improvvisiamo una danza della vittoria. Anche i miei "piccoli", al "cessate il fuoco!" sono saliti lassù, urlando. L'amico bombardiere ci saluta e se ne va. Erano le 10 della mattina del 15 giugno 1918.

Alla destra e alla sinistra del mio chilometro di fronte pareva tutto tranquillo. Non sapevo allora (lo seppi più tardi, come ho detto, poco dopo mezzogiorno che alla mia sinistra s'era formata quella tal sacca dall'Asolone al Ponte San Lorenzo; ma un tratto impervio di monte ci separava dalla sacca. Dovevo: 1° riferire al comando di Compagnia: e preferivo farlo di persona; 2° farmi mandare, per i miei piccoli e me, da mangiare da bere il rancio caldo non era certamente salito dalle cucine alla trincea, sotto quel temporale, ma in caverna avevamo pagnotte e scatolette e il modo di farci qualche secchia di caffè e anice; 3° vedere che cosa facevano i miei amici artiglieri: 'o meglio, che cosa facessero, lo sapevo, perché sparavano furiosamente (avevano allungato il tiro); ma insomma ero curioso di parlare con loro. Riferii, spedii la corvée coi viveri, la mia manovra fu approvata e lodata (la seconda proposta di medaglia al valore parti il giorno dopo; lo venni a sapere più tardi, dopo la fine dell'offensiva; la proposta ebbe lo stesso esito della prima), andai a fare il mio giro.

La lunga fila delle Batterie da campagna non aveva subito nessun danno serio. Sparavano "a volonta", senza interruzione. Quelli sapevano già come stavano le cose sul "mio chilometro"; si congratularono e dissero che portavo degnamente la bandoliera: al Natale del 17 non avevo più messo l'odioso cinturone dei fanti. Il frastuono lassù era tremendo, ma già eravamo abituati a parlare urlando e coi gesti. Di lassù si vedeva, a 20 chilometri in linea d'aria, il Montello avvolto nel fumo. non era nebbia; e sapevamo che quello era il punto debole, nell'angolo formato dalla giuntura del fronte alpino col fronte fluviale. Ebbi, lasciando gli amici artiglieri, l'infelice idea di un po' più in giù, per risalire poi ai miei buchi, di dove m' ero mosso la mattina (erano passate sei ore; pareva chi sa quanto!), e tornare in trincea per la via di quel camminamento. I grossi calibri austriaci scelsero quel momento per riprendere il tiro sulla zona. Sentii arrivare un tiro di batteria; mi schiacciai a terra. Il rumore mia facoltà uditiva; forse rimasi per qualche attimo tramortito. Quando alzai il capo e mi sentii incolume, mi trovai su uno stretto isolotto di terra al centro di quattro enormi crateri. Evidentemente mia madre aveva ragione, e m'aveva provveduto d'un Angelo Custode di Prima Classe, di quelli ad Setti ai Nati con la Camicia.

Nel pomeriggio il bombardamento dalle due parti si stancò, nel mio settore. Della furibonda battaglia intorno alla sacca dell'Asolone fummo informati il giorno dopo. Ma alcune notizie le ricevemmo verso sera. Le due Compagnie 907F sorelle erano state completamente distrutte, armi e uomini. Io conoscevo due ufficiali d'una delle due Compagnie; li avevo conosciuti dando loro il cambio a ridosso dell'Asolone ; erano "vecchi" tra i 25 e i 30, un avvocato e un notaio, milanesi, in guerra dal 1915. Quando i nostri, alla fine della giornata, rioccuparono quella trincea, li trovarono nei loro baracchini, pugnalati al cuore. La sera fu calma. Cessato il rombo della battaglia per la sacca, arrivava lassù in rombo della battaglia in pianura. Andai a vedere nel luogo dove il camminamento, più volte ricordato, superava la cresta del monte e cominciava a scendere verso la trincea. M'arrampicai fuori. Millecinquecento metri sotto c'era un mare di tenebre; a sud-est il Montello era in fiamme.

Scritto fin qui a Verona, sabato 24 ottobre 1970.

Aggiungo che quella giornata del 15 giugno 1918 mi scardinò gli ossicini delle due orecchie (la staffa, mi pare, il martello e l'incudine). Il risultato fu un fischio continuo, una specie di coro di grilli in piena estate, che canta anche ora, dopo cinquantadue anni. Ora poi comincio a diventare duro d'orecchio. Ma andiamo avanti.

GIUGNO 1918. Per noi lassù le giornate dopo il 15 passarono tranquille. Gli Austriaci gettavano tutte le loro forze nella sacca del Montello. Noi seguivamo, dall'alto, la lunga battaglia, dalla quale dipendeva anche la nostra sorte. Non sapevamo che tutto il fronte era isolato dal resto del paese; e qui correvano notizie confuse e false. Mio padre cercò di raggiungere Borso, per sapere di me; fu fermato; anche il suo lasciapassare di colonnello in borghese (era il grado relativo al suo ufficio d'Ispettore delle Costruzioni Telegrafiche e Telefoniche) restò senza valore. La mamma mi disse poi che mio padre in quei giorni sembrava impazzito; girò per tutti gli ospedali di Vicenza, dov'erano convogliati i feriti del Grappa, e d'altri posti. Quando, una decina di giorni dopo, la posta militare si rimise in moto e arrivò a Verona la mia prima cartolina, del 16 o del 17 giugno, si calmò. La fede cieca di mia madre nella mia invulnerabilità ebbe cosi la sua conferma, non richiesta e non respinta.

LUGLIO-SETTEMBRE 1918. S'avvicinava il momento decisivo: lo sapevamo tutti. Il Grappa era pieno d'artiglierie di media e lunga portata, e di gallerie che potevano riversare un esercito verso Feltre e verso la Valsugana, cioè verso Trento. Il mio chilometro di trincea s'affacciava su una valle deserta e aveva di fronte un Pertica in apparenza deserto. C'era solo un punto, all'estremità destra, dove la trincea era crollata, e si doveva passare con un salto: un cecchino dall'altra parte, alla base del Pertica, era pronto a sparare sulla sagoma del saltatore. Ci passavo spesso, per andare al comando di Compagnia e tornarne; bisognava saltare senza un secondo d'esitazione. Non mi colse mai.

DOMENICA 22 e LUNEDI 23 0TTOBRE 1918. Il 22 ottobre tutte le forze di quel fronte, comprese le quattro Compagnie divisionali (le due distrutte erano state ricostituite), furono avviate verso la grande galleria del Grappa. Obiettivo, il Pertica. Il carreggio, muli e carrette e materiale, sali a raggiungerci all'ingresso, e là lo lasciammo nella notte del 23.

Ero l'ufficiale, sottotenente, più anziano: vent'anni e otto mesi: quindi comandavo la Compagnia; avevo un sottotenente di poca sostanza e un bravo aiutante di battaglia, 77 uomini e 6 armi. Uscimmo dalla galleria prima dell'alba e ci avviammo lungo quel costone che unisce la Cima Grappa al Pertica. Intorno a noi si muovevamo migliaia d'uomini, e non si sentiva niente. Con le prime luci dell1'alba cominciò la nostra preparazione d'artiglieria, a cui rispose subito l'artiglieria nemica. Ricevemmo un ordine molto semplice: andare avanti.

Io l'avevo studiato per mesi, il monte, dall'altra parte della valle. Sulla faccia rivolta a sud c'erano due sbocchi d'una caverna, che supponevo (ed era) molto vasta; una trincea poco profonda, di là dalla caverna, scendeva sulla faccia occidentale, verso il fondo della valle. Mi proponevo dunque di raggiungere il cavernone, che i nostri Arditi avevano disinfestato coi lanciafiamme, e di là il fossatello della trincea, dove probabilmente sboccava qualche caverna minore. A parte il bombardamento, c'era il disturbo delle Schwarzlose, che tiravano dall'altra parte della vallata: tiri troppo lontani e poco precisi, per il momento. Avanti dunque, in lunga fila: una sezione (2 armi) dietro l'altra, l’ufficiale in testa, sottufficiale in coda a ciascuna sezione; e dietro l 'ufficiale il porta arma, il porta treppiede, i portacassette (di munizioni). Avevamo tutti le tute antiiprite, che ci avevano fatte indossare all'uscita della grande galleria.

Scritto fin qui a Verona, domenica 25 ottobre 1970.

Lunedì 23 OTTOBRE 1918 tu. Il primo tratto, fino al cavernone, fu percorso senza gravi danni: qualche ferito, che ritornò subito, sulle sue gambe, verso il Grappa; le schegge di granata riempivano l'aria.

S'era quasi sotto la prima bocca del cavernone (dove intanto si stava organizzando una specie di pronto soccorso e di sala operatoria), quando s'annunziò un primo contrattacco sulla groppa del monte, a un centinaio di metri sopra di noi. Armi in postazione, a semicerchio, neanche un colpo tirato. La fanteria, là in cima, aveva resistito e contrattaccato quel tanto che bastava. Fu allora che mi presi un pugno spaventoso sul petto, dalla clavicola alla milza: il tirapugni era costituito da uno scheggione, che mi colpi di piatto, con la faccia liscia. Caddi in ginocchio, senza respiro, ragionevolmente deducendo che quella poteva essere la fine. Un mese dopo, da quella parte ero ancora tutto giallo. Quando potei tirarmi su in piedi, sorpreso di trovarmi ancora sulle mie gambe e intero, ci accorgemmo che l'aria non era solo piena di schegge, ma anche di quei ben noti calabroni. Puntammo di corsa verso il fossatello: meglio di niente.

Eravamo cosi sull'orlo della faccia occidentale del Pertica, nella peggiore posizione possibile: perché quel trincerino non era stato fatto certamente per noi, ed era completamente esposto al tiro di quella maledetta macchina di là. I calabroni cominciarono a ronzare, in sù e in giù, lungo la nostra fila. Io ero nel punto più alto e avevo tra le gambe uno dei piccoli, piuttosto spaventato, che schiacciava testa e elmetto sulle mie costole doloranti. La macchina di là ci annaffiava diligentemente col suo zampillo mortale, sù e giù, sù e giu, ora un palmo più avanti, ora un palmo più indietro; quel mitragliere scelto cercava di ripulire dai parassiti (dal suo punto di vista) la ruga longitudinale del monte, che i suoi avevano quasi perduto. Finalmente ci riuscì, almeno per 1'estremità più alta della ruga: una pallottola mi traforò, da parte a parte, tuta giacca camicia e maglia, lasciandomi il segno, senza rompere la pelle, sulla spalla; la pallottola seguente del nastro attraversò il collo del mio piccolo, dal pomo d'Adamo alla nuca; gli spuntò di sotto i capelli, bucando la pelle dall'interno, ormai senza forza: la presi in mano e la tirai fuori: quasi niente sangue, un gemito e la morte. La terza pallottola scheggiò un sasso vicino ai miei piedi; poi lo zampillo deviò di quei pochi centimetri che c'erano necessari.

Bisognava cercare un rifugio migliore. Il nostro inutile trincerino finiva un metro più sù della mia testa; più sù ancora un mucchio di sassi denunziava qualcosa che valeva la pena d'andar a vedere: trincea, buca, caverna che fosse. Se c'era qualcuno, ci si doveva liberare di lui, o di loro; se non c'era nessuno, tanto meglio. Passai la voce; presi con me un paio dei "vecchi" e m'arrampicai, pancia a terra, sperando che al mitragliere scelto dall'altra parte venisse in mente d'accendersi una sigaretta o di soffiarsi il naso o di sparare più in giù; capimmo poi perché non sparava più in sù. Quei pochi metri, fatti su due ginocchia, una pancia (vuota), e il gomito sinistro, perché il braccio destro impugnava una bomba a mano, pronta, furono piuttosto faticosi e angosciosi. Ci trovammo sul tetto, per cosi dire, d'una grotta; nell'andito stretto, tra due pareti alte, ad angolo, vedemmo tre uomini stesi a terra e una magnifica Schwarzlose. Scagliammo le 
bombe, per buona misura, e ruzzolammo nell'andito; tre erano morti uno, capitano (con tre stellette d'osso) era disteso su una barella; gli altri due forse aspettavano il momento di portarlo da qualche parte, o dentro la grotta, o chissà dove. Qualche nostra granata li aveva coperti di schegge: o forse erano state le nostre bombe. Non feci ricerche. Puntammo subito l'arma, pronta per far fuoco, verso il buco nero della caverna, aspettando di veder uscire qualcuno. Silenzio. Allora io e uno dei vecchi (l'altro stava all'arma), pistola e moschetto in pugno, scostammo d'un colpo la coperta nera che faceva da porta, e saltammo dentro con un urlaccio. Ci rispose una zaffata d'aria infetta, lezzo di feci e leppo di putredine; e un coro di gemiti. La caverna era piena di feriti austriaci; andranno là dalla notte, deposti per terra e su brande sovrapposte, come nei rifugi alpini ; gli andirivieni della battaglia avevano impedito il loro trasporto nelle retrovie. Per i più, morti o moribondi, non c'era speranza; una decina erano vivi, e dicevano (in tedesco e in italiano) "Wasser" e "Acqua".

Cercai di parlare con qualcuno; erano terrorizzati, perché qualche animale aveva detto loro che gl'Italiani ammazzavano tutti, per indurli a non far prigionieri. E gridavano ch'erano "boemi", perché sapevano che gl'Italiani non ce l'avevano con gli Slavi. "Böhme, Wasser" rantolavano. E noi non avevamo niente; dalle prime ore del 23 eravamo in quell'inferno, e le nostre scarse provviste, solide e liquide, erano state consumate. Speravamo, debolmente, che qualche rifornimento ci sarebbe giunto nella notte. Gridai "Wasser, nachts!" e uscii. Trovai tutta la mia gente (non erano molti, ormai nell'andito; i tre morti erano stati portati fuori; le mie sei armi, inservibili (la Saint-Etienne è un'arma di postazione e non da assalto; ha bisogno d'essere curata oliata pulita); la Schwarzlose puntata all'ingresso, ossia dove l'àndito si perdeva sul pendio del monte. Non avevo ordini particolari; la battaglia era ferma, e probabilmente la mia grotta era, dalla parte del monte verso la Val Cesilla, il punto nostro più avanzato. La notte ci avrebbe portato forse da bere, senza forse un contrattacco. Disposi un turno di guardia all'arma e uno sopra la grotta. La stanchezza soverchiò la sete.

24 OTTOBRE 1918. Non vennero i viveri e il contrattacco non si sviluppò sul nostro versante, in quella notte tra il 23 e il 24. All'alba del 24 ricominciò il bombardamento, dalle due parti. L'attacco si fece attendere; e fu, come ci s'aspettava, un attacco in massa. Però il costone nord, che degrada dalla cima del1 Pertica verso il Prassolan, è abbastanza stretto. Quei disgraziati dovevano avanzare stretti stretti su quella specie di ponte prima di sboccare sulla testa del Pertica. La "mia" Schwarzlose li prendeva di fianco, e fece miracoli. Quei non molti che arrivarono sulla cima furono accolti da un contrattacco furioso e furiosamente si difesero. L'artiglieria taceva e scendeva fino alla nostra grotta il clamore della battaglia. Decisi d'andar a vedere e a cercare un po' d'acqua: la sete ci faceva impazzire; qualcuno dei piccoli delirava; dentro la grotta si sentiva un rantolare continuo con qualche gemito.

Ripresi la via verso il cavernone, da solo; l’aiutante di battaglia restava con gli altri nell'àndito. Il cavernone era diventato un ospedale, anzi una sala operatoria; fuori c'era un carnaio, stracci e membra umane. Non era uno spettacolo che potesse far impressione, in un posto dove s'inciampava in un morto ogni cinque passi. Ma davanti alla prima bocca del cavernone (prima, venendo dal Grappa) luccicava una pozza liquida, tra il giallo e il rosso. Fu un momento di pazzia: feci per gettarmi a terra, per mettere la faccia dentro quella delizia. Qualcuno mi tirò indietro; dissi "Acqua"; mi risposero che la poca che avevano serviva ai feriti e ai chirurghi.

Il superamento della crisi, brevissima e violenta, mi lasciò con la sete di prima, ma lucido e calmo. Ritornai all'altra bocca del cavernone. Trovai, seduto per terra, il capitano d'una delle tre Compagnie divisionali che s'alternavano con la mia, fino a qualche giorno avanti, nella trincea dal Grappa all'Asolone. Seduto per terra, e piangeva. Lo salutai; mi disse che lassù (indicò la cima) in un attacco o contrattacco che fosse, aveva perso tutto, uomini e armi. Rimasto solo in una marea di gente che aveva altro da fare, era discesa fino al cavernone, e là, sete stanchezza e dolore l'avevano fermato. Era un uomo piccolo, un po' grosso di corpo e con gambette esili e fortemente arcuate; quindici anni almeno più di me. Gli dissi qualcosa, per confortarlo.

In quel momento il fuoco diventò più intenso e sentii gridare verso la cima: un breve contrattacco nostro, credo, per eliminare infiltrazioni nemiche. Mi parve giusto andar a vedere; se la cima restava sicuramente in mano nostra, la mia cavernetta dei feriti "boemi" era sicura; se quegli altri se la riprendevano, eravamo perduti. Avevo una vaga idea d'unirmi all'ondata d’ assalto. Il capitano mi disse ch'ero matto. Io lo lasciai, al sicuro, davanti alla bocca del cavernone, presi di petto la salita. Pensai che aveva la stessa pendenza del montaron" di Casal (ricordi, Laura?); la somiglianza si fermava li: perché il "montaron" è sempre stato verde e il ripidissimo pendio è senza buche e la cima è coronata da una folta siepe; invece quel "montaron" del Pertica era tutto buche, pieno di morti, e sulla cima centinaia d'ometti facevano il diavolo a quattro.

La mia ascensione fu fermata da una voce, meridionale: "Dove vai?" In una buca, anzi nei resti d'un baracchino, c'era un sottotenente degli Arditi, che aveva trovato il posticino ideale per farsi una: bella bevuta. Cortesemente mi disse "Ne vuoi?" aggiunse "Non ne resta molto", e mi porse la borraccia. Io non risposi né alla prima né alla seconda domanda, ignorai l'ultima e spiacevole constatazione, afferrai la borraccia, mandai giù quel paio di bicchierini di miscuglio (caffè e grappa, mi parve), e restituii la borraccia con un fioco 'grazie". "Dove vai?" riprese l'altro. "SU" risposi. "Su è finito tutto" farfugliò; "non si sente più niente; adesso ricominciano loro". Infatti i grossi calibri ricominciavano a cadere. "Méttiti al riparo" disse l'amico; "non qui: non c'è posto; io mi faccio un pisolino"; e si rannicchiò nel fondo della sua buca, così tranquillo (e ubriaco) come se fosse nella più blindata camera del più fortificato rifugio, o "fifaus" come dicevamo noi.

Quei due sorsi di roba avevano ingannato la mia e sete. Seguii il consiglio dell'uomo saggio; e ridiscesi verso il cavernone. Arrivai a salvamento e cercai il capitano. Il quadro era lo stesso di prima: la bocca del cavernone, il mucchio di stracci e pezzi anatomici, gli stessi morti. Eppure c'era qualcosa di nuovo: si, un nuovo, enorme cratere più in basso; e là, pressappoco dove il mio capitano era rimasto dieci minuti prima, quasi nascosto in un solco tra i sassi, non un corpo, ma la metà esatta d'un corpo: due gambette arcuate, magre, un corto paio di pantaloni, e, dopo la cintura, niente.

Scritto fin qui a Verona, lunedì 26 ottobre 1970.

24 OTTOBRE 1918 (cont.). La giornata del 24 passò lentamente nella nostra cavernetta. Quando ci tornai, venendo al cavernone, era ancora mattina: non so l'ora, perché nessuno di noi aveva l'orologio da polso, e il mio, da taschino, richiedeva, per esser tirato fuori, tali operazioni di sbottonamento di tuta e giacca, che preferivo guardare il sole. Avevo mandato, la mattina presto, uno, al carreggio, per sollecitare e guidare una spedizione di viveri, solidi e specialmente liquidi. Naturalmente la corvée sarebbe arrivata a notte. Non restava che aspettare.

Eravamo tutti intontiti; si parlava a voce bassa; cercavamo di non ascoltare il rantolare e i gemiti, rari, che venivano di là dalla coperta nera. Il bombardamento non cessò mai, fino a sera. Dall'altra parte, nessun movimento di fanterie. Se le perdite, gravi, e bombardamento la stanchezza e la scarsezza o mancanza di rifornimenti non ci avessero tolto ogni forza, e se qualcuno avesse avuto un po' di fiato, per avanzare, avremmo trovato il vuoto davanti a noi.

Dal Grappa al Pertica sono circa 4 chilometri. Calcolai che la corvée sarebbe partita (se partiva) col buio, sulle 18; al massimo alle 20 doveva arrivare. Arrivò, con quattro secchioni di caffè e anice e un sacco di roba da mangiare, pane formaggio scatolette. Noi eravamo tutti, stretti, in quello stretto àndito, che ho più volte nominato; io ero all'uscita dell'àndito, presso la Schwarzlose. Presi il primo secchio, e lo portai fino alla coperta nera, dov'erano ammucchiati gli ultimi della fila. Bisogna tener presente che quel breve corridoio non ci permetteva molti movimenti, e che eravamo piuttosto sfiatati. All'ultimo della fila passai il secchio. "Per i feriti, signor tenente?" domandò. "Entra, e fa' presto". Poi cominciò la distribuzione. La nostra spedizione di soccorso aveva portato anche due barelle; nessuno di noi ne aveva bisogno; mandammo indietro due feriti "boemi".

Il più vecchio della spedizione m'aveva portato un ordine, orale, purtroppo. La XV Divisione richiamava i resti delle sue quattro Compagnie Saint-Etienne; era in corso una vasta manovra di cambio; ritiravano la prima ondata, mandavano avanti truppe fresche. Dissi: "finiamo di mangiare, lasciamo ciò che resta ai feriti là dentro, e torniamo alla galleria del Grappa". Lasciammo i treppiedi (che furono ricuperati il giorno dopo); il primo che usci dall'àndito si caricò un'arma in spalla e prese con la sinistra una cassetta di munizioni: cosi il secondo fino al sesto. Due cassette le diedi al portaordini a corvée era partita da tempo) e aggiunsi due fucili; quattro fucili, due per parte, li presi io: quattro e due & sei, quanti erano i miei piccoli con le armi in spalla; il portatore della Schwarzlose,
più leggera, aveva tenuto il suo. Non c' era nessun altro: sette e due nove (Nanni e Lovato, feriti, mancavano dal giorno prima). Ci avviammo in silenzio.

A metà del costone che unisce le due cime, c'era una casera in rovina, dove s'era fatta una breve sosta il 23 notte, verso l'alba. Io non avevo nessuna intenzione di fermarmi là; per quanto fossimo stanchi, l'idea di ritornare alla galleria e trovare di là il nostro carreggio, e avere notizie dei nostri feriti, ci faceva tirare avanti.

MERCOLEDI 25 OTTOBRE 1918. All'altezza della casera una sentinella c'intima il chi-va-là. Rispondo "81 Compagnia Mitragliatrici Saint-Etienne, 15 Divisione". "Entri al comando". Entro e, seduto su una brandina, trovo un vecchio (verso i 50) colonnello, imbecille o spaventato, o tutt'e due, comandante di non so quale reggimento di Fanteria (uno di quelli della seconda ondata), che m'aggredisce con urla insensate. Vuol vedere l'ordine scritto del Comando della XV Divisione. Chiamo il portaordini, che conferma. Lui non sa che cosa sia la XV Divisione; urla che ci tiene agli arresti; ci fa andare in una camera vicina, ossia tra le quattro pareti, senza tetto, d'una stalla, senza paglia. Riuniamo in un fascio le nostre armi, le sette mitragliatrici, i fucili, le cassette, e ci sdraiamo per terra, addormentandoci di schianto.

La mattina del 25 ci svegliò in mezzo a un gran silenzio. Quel vecchio pazzo se n'era andato, col suo reggimento. La seconda ondata (lo sapemmo dopo) non trovò quasi resistenza, scese verso Cismon e Seren, e andò a cogliere gli applausi e gli allori.

Noi nove ripigliammo il nostro armamentario e la via per la galleria del Grappa; volevamo raggiungere il nostro carreggio e dormire. Quel bravo sergente maggiore del carreggi0 ci aveva preparato una curiosa accoglienza: otto beveroni d'un liquido boll ente, amarissimo (il portaordini non ne aveva bisogno); volle che ognuno, prima di buttarsi a dormire, si bevesse la sua scodella fino all'ultima goccia; noi eravamo troppo deboli per fare resistenza, e bevemmo quel salutare torcibudella. Mi dispiace abbassare queste "eroiche" memorie a un livello tanto volgare; il fatto è che, dalla mattina del 22 all'ora del nostro ritorno, cioè alla mattina del 25 ottobre, il nostro apparato digerente non aveva lavorato molto all'"entrata" e aveva lavorato pochissimo all'"uscita". Il nostro risveglio, nel pomeriggio del 25, fu forse anticipato dagli effetti di quel beverone; ma ci trovammo ben presto liberi, e disposti a far onore a un rancio speciale.

26 OTTOBRE 1918. Ricevemmo l'ordine, scritto, questa volta, di scendere a Borso. Al Comando della XV Divisione, ch'era ai Prati di Borso, avremmo avuto istruzioni. Partimmo prima dell'alba del 26; di non mattino lasciavo la mia tribù (muli, carri e uomini) sul ciglio dei Prati, all'imbocco della lattiera ripidissima che scende a Borso, e mi recavo al Comando. Mi ricevette un maggiore, aiutante maggiore del generale Pirzio Biroli; feci il mio rapporto, compresi gli urli del vecchio colonnello. Il mio unico merito era d'avere riportato le armi della Compagnia e una Schwarzlose: si capisce che il punto d'onore del Mitragliere sta nel non perdere le armi.

Si congratulò; mi disse che attendeva i rapporti del Comando della Brigata Pesaro (alla quale eravamo stati, a nostra totale insaputa, aggregati); accennò che le cose andavano bene; da Borso, disse, tra qualche giorno saremmo partiti per il nostro centro di Barbarano, lasciando il nostro servizio presso la XV Divisione. La terza proposta di medaglia al valore sul campo non so se fosse compresa nei rapporti della Brigata Pesaro o aggiunta dal Comando della XV Divisione. Ne ebbi notizia in novembre, a Udine.

NOVEMBRE (LUN) 31 OTTOBRE 1918. Il 31 ottobre l'81 Compagnia Mitragliatrici 907 F si metteva in marcia da Borso del Grappa verso Barbarano. Non eravamo molto in forma; ci stavano davanti 80 chilometri, da fare a piedi, perché le carrette erano cariche di materiali e un po' di posto si doveva fare ai più male in gambe. Fu una lunghissima passeggiata, per belle campagne, con un tempo ottimo. Non si faceva molta strada in un giorno. Il 4 novembre, in un paesino tra Cittadella e Vicenza, ci giunse la notizia dell'armistizio, e lo festeggiammo con una grandiosa bevuta.

NOVEMBRE 1918. A Barbarano s'arrivò il 6, o il 7. Il grande centro si prepara alla liquidazione. Nel salone immenso della villa, dov'era la mensa ufficiali, la clientela cambiava ogni giorno; e così nelle baracche dei soldati. Venivano Compagnie da ogni parte del fronte, e Compagnie partivano per raggiungere i centri di versamento del materiale. Dopo la metà di novembre la Compagnia si preparò alla sua ultima marcia: quasi 200 chilometri. Ritornammo sui nostri passi, fino a Cittadella; poi Castelfranco Montebelluna il Montello Cornuda. Passiamo la Piave al ponte di Vidor, e avanti fino a Codroipo.
di qua raggiungemmo le note campagne e praterie di S. Maria la Longa; ci fermammo in una cascina, in attesa d'essere chiamati a Udine. Feci grandi corse (e qualche ruzzolone) su un cavallo, meno selvatico ma forse più alto dei miei cavallaci americani di Novara. Alla fine del mese versammo il materiale a Udine, e ognuno parti per il suo distretto. Non ci furono romantici addii; il pensiero dominante era che s'andava a casa (o almeno vicino a casa) e che la guerra era finita.

DICEMBRE 1918-MAGGIO 1919. A Verona arrivai ai primi di dicembre. Nel gennaio 1919 andai a Padova, a frequentare i corsi accelerati: io avrei dovuto finire nel 1919 il mio IV anno. M'arrivò in aprile la notizia della promozione a tenente (il più alto grado raggiunto nella mia "carriera militare"), con 7 non so quanti mesi di arretrati. Esami in maggio.

GIUGNO 1919 - MAGGIO 1920. In giugno daccapo a Verona, dove, tra vari perditempi (all'ufficio istruttorie per piccoli reati, all'ufficio di liquidazione dei materiali residuati, e roba del genere) e preparando gli esami che mi restavano, tirai avanti fino al 24 marzo 1920. Il 12 maggio inviato in congedo temporaneo (dopo due mesi di licenza).

Collocato in congedo definitivo il 27 maggio 1920, a 22 anni 27 giorni, dopo 40 mesi di servizio militare, a partire dal febbraio 1917.

Scritto fin qui, il mercoledì 28 ottobre 1970.

RICORDI SPICCIOLI. Per una settimana (dal 15 al 28 ottobre 1970) ho richiamato alla memoria quei quaranta mesi importanti della mia vita, li ho rivissuti raccontandoli alle persone più care, due che intendono e due che intenderanno. Non ho raccontato tutto ciò che ricordo, colori paesaggi sentimenti, infiniti particolari: da farne un libro, se fossi mio scrittore di questo genere (per il quale non ho mai avuto simpatia). I miei contatti con un'umanità sporca, sofferente, irrazionale e spesso generosa (ricordo quello spontaneo "Per i feriti?" del 24 ottobre, terzultimo capoverso). I miei rapporti (credo che si possano chiamare cosi) con cavalli adattare il corpo al loro passo o trotto o galoppo, la corsa inebriante scandita dal quadruplice tonfo nei prati novaresi e friulani. Il Natisone a Cividale X 17) e le sponde deserte dell'Isonzo. La villa di Nòvare in Valpolicella dove passai qualche notte nel novembre del 1917, e seppi che là aveva villeggiato il Pindemonte. Il Mulino di Mussolente (XII 1917).

Una colossale sbornia nel gennaio del 1918 (l'unica versa sbornia della mia vita), la mia vendetta contro colleghi mitraglieri e artiglieri che avevano voluto ubriacarmi; rientrai ultimo nella baracca dove quelli già russavano, riunii tutte le loro scarpe e le riempii accuratamente con tutto il liquido che quegli sciagurati m'avevano fatto ingurgitare. I paesi rovinati del Montello e della Piave: le poche case dell'Isonzo e i sassi del Grappa non m'avevano dato un 'idea di quello ch'è un paese intero a terra, chiesa scuole farmacia municipio, case ricche e povere, la piazza sconvolta con le buche delle granate e degli alberi sradicati e bruciati, i rifiuti nell'interno, il quadretto appeso storto a una parete senza soffitto e pavimento. Non potevo immaginare allora i disastri che avrei visto nelle nostre città durante la guerra del 40-45.

Di là dalla Piave, nel novembre 1918, alla fine d'una lunga giornata di marcia, uno ci venne a dire che la Compagnia doveva alloggiare per la notte in una certa cascina. Feci sellare un mulo con coperte e cinghie da basto (non avevamo selle) e m' avviai di buon passo per una stradetta di campagna. Pensavo, con la sufficienza del soldataccio, che avrei fatto colpo sulle ragazze: vent' anni, non proprio da buttar via, nonostante gli occhiali, liberatore (anche questa parola ci ha guastato la maledetta ultima guerra) e comandante di Compagnia; in più, Veneto di lingua e costume e carattere. Non avevo tenuto conto del mio lunghissimo impermeabile tra giallo e grigio, e in ogni modo sporchissimo, e del mio muso nordico. Entro dunque nel cortile, discendo con eleganza (e sfido qualunque cavallerizzo a smontare con un volteggio d'alta scuola, sfilando i piedi da due cinghie applicate come "Ersatz" delle staffe) e chiamo. Vengono sulla porta una donna anziana e una ragazzetta, guardano me e il mulo, e la donna grida "Madona Santa, i todeschi!". Ci volle del bello e del buono per persuaderle che, nonostante gli occhiali il muso i capelli biondo-castani e l'impermeabile, ero Italiano anzi Veneto occidentale, anzi Veronese.

Non ho parlato (salvo un paio di nomi) di persone; ho lasciato da parte i ritratti e l'aneddotica tradizionale dei ricordi di guerra. Il nonno e il prozio garibaldini avevano il loro eroe da ricordare e venerare, un invincibile condottiero. Nella mia guerra questi personaggi mancavano.

L'aviazione e la marina dei piccoli mezzi d'assalto si prestavano alle grandi avventure, ai gesti leggendari; non noi, figli della terra. Quanto ai condottieri, non ne avevamo grande opinione; i maggiori erano "indietro, si facevano, o preparavano, la loro propaganda, pensando al poi, e avrebbero scritto le le loro inutili "memorie". Di Cadorna conoscevamo gli errori; di Diaz si diceva & ch'era bravo, e in ogni modo ci dava da mangiare meglio di Cadorna; Giardino Badoglio il duca d'Aosta erano nomi, firme; del Re non si parlava, era solo un'istituzione storica. I veri condottieri, modesti pazienti ignoti, eravamo noi, aspiranti sottotenenti tenenti, capitani al massimo, e i nostri sottufficiali. Tra gli ufficiali superiori so che ce n'erano di valorosi, personalmente; ma di solito, nella nostra guerra di posizione, noi, popolo della trincea, non li vedevamo; e del resto, per fare il nostro dovere e dare la nostra vita, non ne avevamo bisogno. La cosa era, per noi, perfettamente naturale. Noi stavamo al nostro posto, e loro stavano al loro.

Ma io non faccio la storia della guerra, faccio la mia, minuscola, storia. Parliamo di paura. Quando, nell'agosto del 1917, ci trovammo io e due del mio grado sulla cresta del monte che divide la valle del Judrio dalla valle dell'Isonzo, in mezzo a quei crateri che attestavano la violenza della battaglia, il più vecchio di noi disse senza perifrasi che lui aveva paura, e domandò noi se avevamo paura. L'altro, della mia età, disse che non sapeva; io risposi "no", e il vecchio ribatté ch'ero un incosciente. Verissimo: nel senso che non avevo coscienza, pur conoscendola, della realtà dei pericoli a cui andavo incontro. Ma quando a questi pericoli mi trovai in mezzo, io mi trovai sempre piuttosto eccitato che depresso: era un'eccitazione allegra e un'attenzione vigile, per me e per quelli che mi seguivano; dicevo sciocchezze ridicole, e, al caso, prendevo in giro gli altri e me.

Non ricordo nessuna frase memorabile; solo una, chi sa perché, m'è rimasta in mente. Fu il primo giorno sul Pertica, 23 ottobre, dopo che quello scheggione m'aveva tramortito, nel tratto da quel punto al trincerino sotto la caverna dei "boemi". Mi passò vicino un tenente, del Comando della Brigata Pesaro (solo il 26 seppi che noi eravamo aggregati a quella Brigata); lo riconobbi per uno studente di Padova, non so di quale Facoltà. "Ciao; cossa fastu qua?" "Vago avanti. E ti?" "Vago sù" (verso la cima del Pertica). "Se stava mejo al canton del Galo" dico (luogo d'incontro degli studenti, a Padova). "Credo de si. Ciao". "Ciao". Niente di sensazionale.

Nella mia "incoscienza", non avevo paura: e aggiungete all'incoscienza la curiosità vivissima di vedere come andavano le cose, e l'orgoglio del nipote del vecchio garibaldino. Però un momento di vera paura (non me ne vergogno) lo provai il 24 ottobre, mentre scendevo verso il cavernone del Pertica, dopo aver bevuto quei due sorsi dalla borraccia dell'Ardito. Ebbi di colpo la certezza che non sarei riuscito a raggiungere il capitano mitragliere che avevo lasciato alla bocca del cavernone ; il bombardamento era rabbioso, e non avevo l'ombra d'un riparo. Corsi giù, affannato; ciò che vidi davanti al cavernone mi rivelò che quella rapida mia salita e bevuta e discesa m'aveva salvato. E la paura mi passò.

Una delle tante cose che imparai nel mio chilometro di trincea, è questa: che l'indecisione è pericolosa. L'ho detto nelle memorie del luglio-settembre-ottobre 1918. Non era spavalderia l'affrontare cosi spesso quel salto; ma temo che un pochino di civetteria c'entrasse. E sapevo che, se mi fossi mostrato incerto, a parte la quasi certezza di beccarsi la pallottola del cecchino, avrei perso la fiducia dei miei soldati.

Nessun sentimento religioso. La mia debole e superficiale fede di ragazzo era stata spazzata via alla fine del 1912, quando entrai in liceo e la filosofia (per la quale, del resto, ho sempre nutrito una salutare diffidenza) cominciò a ballarmi per la testa, e nel 1913, quando mori la nonna Teresa. I miei erano perfettamente agnostici; non mi dissero, quando smisi d'andare in chi esa, né "Bene" né "Male"; mi lasciarono libero e non provai né crisi né angosce. I problemi religiosi, la liturgia, la musica sacra, le letture bibliche (per gusto mio, e per rispetto alla memoria dei miei due nonni, che, cattolici praticanti, leggevano però la Bibbia del Diodati, per anticlericalismo risorgimentale) continuarono a interessarmi, anzi l'interesse crebbe con l'età e l'istruzione; ma non erano i miei problemi. Ero come un ciottolo, liscio e tondo (molto tondo), lanciato da una mano misteriosa (la Natura, pensavo, o l'Evoluzione, e sciocchezze del genere), che percorre, ubbidiente a leggi fisiche e biologiche, la sua parabola di vita, fino al suo termine, lontano o vicino che fosse. Io vivevo, e basta. Solo mi ripugnava fortemente l'idea di non essere libero; ma intuivo che il mio provvisorio assestamento in quel rozzo meccanismo positivistico sarebbe finito, se avessi ammesso la 1ibertà del volere, il libero arbitrio. E mi sforzavo di rendere meno amaro il boccone, ingannandolo con una quantità di scuse, di cui nei "Documenti" troverete qualche esempio.

La guerra non portò nessun mutamento in questo mio stato d'animo: non bestemmiai (ch'è una religione alla rovescia) e non pregai. Il mio mondo, la mia famiglia, i miei studi e progetti, i miei sogni (filologia e poesia, scienza e musica) mi bastavano. Quella era la mia Vita: una Vita felice, per i miei gusti una Vita che la Patria (entità storica e sociale) m'aveva, per così dire, data in prestito, e poteva riprendersela quando voleva. Il ritorno alla, o della, Fede in Dio, che avvenne nel 1925, diede a questa mia ultima convinzione un senso più profondo, senza alterarne la sostanza e la pratica.

Scritto a Verona il 1° novembre 1970, Domenica di Tutti i Santi.

IL TIMBRO. In questi giorni ho rimesso in ordine (pressappoco) i cinque cassetti della mia scrivania: un lavoro di cui c'era necessità da almeno quattr'anni. Tra le cianfrusaglie ho trovato il "timbro", il sigillo di tutte le scartoffie della mia Compagnia. Voglio imprimerlo qui, a conclusione di questo mio sommario di ricordi militari, cimelio burocratico a'una minuscola e molto relativa autorità:




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